Ringrazio Orientamenti pastorali per l’invito a presentare il mio libro Il dramma dell’Europa senza Cristo. Il relativismo europeo nello scontro delle civiltà (Sugarco, Milano 2006). Non è certo mia intenzione riassumerlo.
Ma vorrei invece condividere con i lettori le circostanze in cui questo libro è nato. È un libro che è stato recensito abbastanza spesso, e positivamente, notando però la sua “anomalia” rispetto alla mia produzione precedente; io di solito scrivo libri di sociologia delle religioni, una scienza la cui prima regola è non dare giudizi di valore: descrivere senza giudicare. Questo invece è un libro dove, come si dice con espressione di moda, “scendo in campo”, parlo da cattolico a cattolici di quelle che mi sembrano preoccupazioni meritevoli di essere condivise. Certamente il lettore si rende conto che il testo proviene da un sociologo, ma nello stesso tempo è un libro scritto con molti giudizi di valore, con molta passione, con molto sforzo di denuncia di quelli che sembrano essere i mali dell’Europa del nostro tempo e i difetti di trasmissione della nostra tradizione cristiana.
L’occasione di questo libro è stata di fermarmi a riflettere sul fatto che per me il 2006 segna trentacinque anni esattamente di lavoro nell’ambito di quella che noi preferiamo chiamare (secondo la tipologia dell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa) agenzia, e non movimento, che è Alleanza Cattolica e trentacinque anni sono più di un terzo di secolo. Alleanza Cattolica è un piccolo gruppo (non più di un migliaio di persone in tutta Italia) che ha come vocazione particolare in primo luogo la lettura, quindi lo studio e la diffusione del magistero pontificio, e in secondo luogo (un ambito evidentemente distinto dal primo, dove entra in gioco la responsabilità autonoma dei laici e non si impegna certamente l’autorità della Chiesa) l’applicazione di questo magistero sotto forma di giudizio ai problemi politici, culturali e religiosi del nostro tempo.
Trentacinque anni fa, quando ho iniziato questo lavoro in Alleanza Cattolica, ero al liceo dai Gesuiti di Torino e il grande problema, che sembrava ci avrebbe accompagnato tutta la vita, era il comunismo. Io avevo tra i miei compagni di scuola in un istituto dove si veniva intelligentemente pungolati a discutere di politica, a rischio di creare qualche scontro, Piero Fassino e tanti altri che più tardi hanno fatto politica attiva. Allora andare a leggere la dottrina sociale, il magistero, significava soprattutto trovare delle ragioni per capire che, se c’erano grandi problemi sociali e grandi ingiustizie, e il comunismo ci presentava delle soluzioni seducenti, queste soluzioni che affascinavano anche tanti nostri compagni di scuola non erano le uniche perché il magistero della Chiesa cattolica ce ne presentava anche delle altre che non partivano dal materialismo o dall’economicismo, cioè dalla riduzione di tutto all’economia, ma partivano dalla persona umana. Nel 2006 mi sono chiesto da che cosa si potrebbe partire per intavolare oggi il discorso sul magistero, sull’insegnamento dei pontefici e sulla sua importanza. Certo ci sono ancora regimi comunisti, c’è la Corea del Nord, c’è Cuba: ma non si può dire che sia quello del comunismo il problema che preoccupa di più i giovani e i meno giovani. E l’impressione che ho avuto riflettendo sugli ultimi anni del magistero dei pontefici è che abbiano parlato molto dell’Europa. Forse perché il pontefice è il vicario di quel Cristo che è venuto per gli ammalati non per i sani, e nell’Europa soprattutto Benedetto XVI, da cardinale e poi da papa, ma già Giovanni Paolo II, hanno visto un continente particolarmente malato. Non che il resto del mondo sia il regno della sanità o della santità: ma in Europa i Papi hanno visto delle particolari malattie, tali da richiedere degli interventi specifici. Ecco allora che è nata questa riflessione in tre punti: quali sono i mali specifici dell’Europa che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno visto, quale le cause e quali i possibili rimedi.
Crisi dell’Europa
La prima parte mira a fare notare quello che altri vedono dall’esterno ma che noi europei vediamo più difficilmente dall’interno (chi entra in un luogo dove c’è cattivo odore da fuori se ne accorge subito; ma non è così per chi è già dentro): che c’è una crisi che è specifica dell’Europa (e delle sue appendici canadese e australiana: diversa è la situazione degli Stati Uniti). La riflessione del magistero più recente si è soffermata soprattutto su tre punti.
Primo: la stanchezza morale dell’Europa che di fronte all’aggressione dell’ultra-fondamentalismo islamico (che non va confuso simpliciter con l’islam in genere) non è in grado di reagire o almeno non in modo unitario ma rimanda, rinvia, cerca soprattutto di non essere disturbata nei suoi divertimenti e nei suoi commerci pensando che “tanto col tempo tutto si aggiusta”. La riflessione insiste sul fatto che l’Europa si è comportata così di fronte al nazismo e di fronte al comunismo e che il problema non è primariamente geopolitico ma morale (dopo la pubblicazione del mio volume, il mirabile discorso di Benedetto XVI ad Auschwitz ha ulteriormente approfondito questo punto). Certamente le aggressioni sono opera di quelli che il Papa chiama “criminali”, ma il successo delle aggressioni dipende dall’ignavia dei presunti buoni, che ha vere e proprie caratteristiche di vizio.
Secondo: l’introduzione di leggi particolarmente aberranti che segnano una separazione di una radicalità che non ha precedenti nella storia fra politica e morale. Non si tratta della presenza di uomini politici corrotti o di legami fra politica e criminalità organizzata che ci sono in tutto il mondo ma di un brutale assalto ai fondamenti dell’etica sociale di cui il matrimonio degli omosessuali e l’eutanasia all’olandese (di cui va ricordata l’analisi in un documento della Pontificia Accademia della Vita del 2004: L’eutanasia in Olanda: anche per i bambini!) costituiscono esempi cruciali.
Terzo: il “suicidio demografico” dell’Europa (l’espressione è stata coniata da Giovanni Paolo II), rispetto al quale quello di cui ci si deve stupire è che se ne parli così poco mentre le statistiche sulla demografia sono tipiche della fine di una civiltà.
Il perché della crisi
Nella seconda parte del volume, dopo avere riassunto i termini della crisi dell’Europa, si pone la domanda: perché l’Europa è in crisi?
La risposta, tratta ancora una volta principalmente dal magistero di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, è articolata in tre punti.
La prima è una risposta storica secondo cui tutto comincia non con l’11 settembre, non con il comunismo e neppure con il nazional-socialismo ma con la Prima guerra mondiale, frutto maturo della Rivoluzione francese e dei nazionalismi rivoluzionari; è lì che, secondo l’espressione del ministro degli Esteri britannico sir Edward Grey (1862-1933) “le lampade si spengono in tutta Europa, e nella nostra vita non le vedremo mai più accese”. I “nazionalismi senza nazione”, che separano le nazionalità dalle radici cristiane, portano a una guerra che la morale non riesce a controllare e sono alle radici del rifiuto del cristianesimo, l’attuale “cristofobia” secondo l’espressione coniata dal grande giurista (ebreo ortodosso, non cristiano) Joseph H. H. Weiler, che caratterizza l’Europa e trova eloquente espressione nell’ideologia del primo ministro spagnolo Zapatero e nella sua formula della religione non più come oppio ma come tabacco del popolo.
La seconda e la terza risposta al quesito sulle ragioni della crisi denunciano due equivoci o ricatti.
La seconda risposta è che si sono confuse multiculturalità e multiculturalismo. La multiculturalità è un fatto: la stessa verità può esprimersi in lingue, costumi, sapori, cucine, arti diversissime. La Chiesa è l’istituzione più multiculturale che esista. Il multiculturalismo invece è un’ideologia secondo cui le varie culture non possono essere oggetto di giudizi di valore perché non c’è un criterio superiore a ciascuna cultura che le trascenda e permetta di confrontarle. Ogni giudizio vale solo all’interno di una data cultura; le culture non possono essere paragonate fra loro. Questa è l’essenza del relativismo nella sua forma costantemente criticata da Benedetto XVI. Questo relativismo multiculturalista deriva da tendenze della scienza antropologica moderna, che hanno gradualmente invaso altri ambiti scientifici.
La terza risposta che è al centro di diversi interventi di Benedetto XVI è che è in atto un vero e proprio ricatto che lascia intendere che sui rapporti fra religione e politica e religione e cultura le posizioni possibili sono solo due: il laicismo, che erige una muraglia cinese fra religione e cultura, e il fondamentalismo, che le fonde in modo tale da negare l’autonomia delle realtà umane e dunque le confonde. Niente affatto, risponde Benedetto XVI: le posizioni possibili non sono solo due, sono tre, e la terza è quella vera, la “sana laicità” che non separa (contro il laicismo) e non confonde (contro il fondamentalismo) religione e cultura, religione e società, religione e politica, ma le distingue nella prospettiva di una collaborazione.
Qui il magistero mette in crisi ogni analisi che utilizzi griglie come destra/sinistra, noi/loro, cristiani/laici perché elementi di multiculturalismo relativista e di laicismi sono presenti anche nella cultura cosiddetta “di destra” (attraverso un terzomondismo anti-occidentale) e anche nella Chiesa, attraverso quella errata interpretazione del Concilio Vaticano II letto come rottura e non come approfondimento di tutta la tradizione precedente della Chiesa, spiegata e denunciata da Benedetto XVI nel fondamentale Discorso ai Membri della Curia e della Prelatura Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22 dicembre 2005, un discorso lungo e denso come un’enciclica.
Cosa fare
La terza parte del volume, che parte dalle prime due c’è una crisi che è peculiare all’Europa, e questa crisi deriva dalla “cristofobia” e dal relativismo risponde alla domanda: “Ma allora non c’è più nulla da fare”? Nella sostanza, questa terza parte vuole trasmettere due messaggi. Il primo è che non è vero che non c’è più nulla da fare. Qui un sia pure cauto uso delle statistiche dei sociologi (dal momento che, come mostra una recente indagine veneziana, le affermazioni degli intervistati sul comportamento religioso non sempre corrispondono al comportamento stesso) mostra che tra l’inizio e la fine del pontificato di Giovanni Paolo II, nonostante la “cristofobia” delle lobby al potere, in alcune parti significative dell’Europa (tra cui certamente l’Italia) sono aumentati sia il numero di coloro che si dicono cristiani e cattolici, sia il numero di coloro che frequentano (rectius, dichiarano di frequentare) almeno mensilmente una Messa (il dato “almeno mensile” essendo considerato dalla maggioranza dei sociologi più significativo di quello settimanale), sia infine il numero di chi si dichiara cristiano o cattolico o denuncia una frequenza almeno mensile alla Messa nelle fasce più giovani (14-18 e talora anche 18-25 anni). Anche se permangono situazioni (che hanno spiegazioni storiche precise) come quella della Francia dove nulla sembra muoversi (e altre assai migliori di quella italiana come la vicenda polacca), e ogni tipo di trionfalismo è fuori luogo perché i praticanti rimangono minoranza, i dati dimostrano che siamo usciti dagli “anni di piombo” della religione, gli anni 1970, e che esiste davvero una “generazione Giovanni Paolo II” (che continua con Benedetto XVI, le cui udienze sono perfino più frequentate di quelle del predecessore). Certamente i dati non autorizzano ottimismi eccessivi, ma dimostrano che il treno dell’interesse per la religione e anche per la religione cattolica non è più fermo in stazione ma è ripartito. Talora ci salgono sopra anche intellettuali non credenti, non solo in Italia.
Dunque una percentuale minoritaria, ma non insignificante, e in alcune fasce crescente, di italiani va in chiesa; tuttavia l’insegnamento della Chiesa li raggiunge in modo insufficiente. Questo pone un gigantesco problema di comunicazione: fermo il valore enorme e indiscutibile dei sacramenti, di che cosa si parla, che cosa si insegna nelle chiese? Non vi è certo carenza di insegnamento a livello di magistero pontificio, che con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si è fatto al contrario di una ricchezza straordinaria e perfino commovente. Vi è invece carenza di trasmissione del magistero. E dal momento che alla trasmissione non provvedono o almeno non sempre e mai sufficientemente i media, né possono bastare le omelie domenicali, è legittimo (e lo stesso magistero lo auspica) che si diano da fare anche i fedeli laici, attraverso non tanto “movimenti” ma “agenzie” specializzate come vuole essere Alleanza Cattolica (che movimento non è). L’invito a collaborare con Alleanza Cattolica è dunque anzitutto invito a essere fra quei laici che studiano e diffondono (dove l’inciso “e diffondono” è fondamentale, dal momento che in Alleanza Cattolica in tesi non ci sono meri ascoltatori) il magistero, il quale solo offre la risposta adeguata al relativismo e alla crisi dell’Europa. Il messaggio che conclude il volume può essere così riassunto: una risposta alla crisi c’è, e si trova nella ricchezza del magistero pontificio, ma questo può diventare cultura e storia solo se qualcuno lo diffonde.
E che il magistero diventi cultura e storia non è indispensabile solo per i cattolici: lo è per chiunque ami la giustizia e la pace. Gli esempi offerti dal volume non sono casuali, e rimandano alle tesi di Samuel Huntington sullo scontro tra civiltà e alla risposta che il magistero specie di Benedetto XVI ha dato implicitamente e talora esplicitamente a queste tesi. Solo l’Europa o la Magna Europa, l’Occidente può trasformare lo scontro di civiltà in incontro di civiltà, in forme di dialogo difficile ma non impossibile con le culture descritte da Huntington come potenzialmente ostili (la russa e la cinese e non solo la islamica di cui quasi esclusivamente si parla). Tuttavia per diventare partner in un difficile incontro di civiltà, parte della soluzione e non (come oggi purtroppo è) parte del problema, l’Europa deve rinunciare al relativismo e ritrovare le sue radici cristiane. Chi non ha identità non può dialogare in modo convincente con nessuno.
Gli accenni finali del volume al fatto che nella cultura occidentale, anche moderna, si conservino valori di eleganza e di stile (anche nel nostro paese: il made in Italy, la cucina, il design) e di bellezza (il libro si chiude evocando il maggiore pittore canadese del XX secolo, William Kurelek, 1927-1977, scandalosamente ignorato in Europa per le sue idee di cattolico intransifente) non sono casuali. L’eleganza e la bellezza sono infatti elementi tutt’altro che secondari dell’identità e delle radici europee, e sono temi da coltivare per creare un clima in cui l’annuncio della lezione del magistero e delle sue applicazioni come soluzione alla crisi dell’Europa e nutrimento per chi timidamente torna a frequentare le chiese diventi possibile. La bellezza vera però quella che il relativismo, con suo danno, non conosce non si trova certo nell’arte per l’arte o in un’eleganza fine a se stessa, ma ultimamente in Dio, fonte del Bello come lo è del Vero e del Bene. Di qui un invito a scoprirla anche nella liturgia e nella preghiera, che non possono non essere l’anima dell’operazione culturale di riconquista delle radici cristiane dell’Europa.