Nota previa: Questo testo ha carattere scientifico e di informazione generale. Lo riproduciamo per mostrare la varietà di interessi coltivati da Massimo Introvigne e a titolo di informazione generale. Non costituisce in nessun modo un parere di carattere legale. Per informazioni su casi specifici, si può contattare l’autore al suo indirizzo professionale.
Il World Wide Web, cui accediamo quotidianamente quando usiamo Internet, ospita oltre dieci milioni di siti. Quando vogliamo accedere a un sito, per esempio il sito della Microsoft, dobbiamo connetterci al computer che lo ospita. I programmi di navigazione come Internet Explorer o Netscape sono in grado di stabilire questa connessione, ma hanno bisogno di identificare il computer che ospita il sito cui intendiamo accedere. Questo avviene normalmente attraverso una sequenza di numeri (per esempio: 207.46.138.20). Pertanto, a chi voglia rendere accessibile un sito Web fin dagli anni 1970 era assegnato un certo numero dalla IANA (Internet Assigned Numbers Authority). Tuttavia, con lo sviluppo di Internet, era molto difficile che gli utenti si ricordassero, o anche riuscissero a tenere nota, di molteplici sequenze di numeri corrispondenti ai siti per loro interessanti. Così, Paul V. Mockapetris e Jonathan B. Postel, due ricercatori dell’Università della California del Sud a Marina del Rey, inventano nel 1983 i domain names, cioè modi di identificare “dove si trova” un sito Web costituiti non più da numeri ma da lettere (ovvero lettere e numeri). Da questo momento, anziché digitare “207.46.138.20”, chi vuole accedere al sito della Microsoft digita www.microsoft.com. In realtà il programma di navigazione accede a un computer che traduce immediatamente le lettere in numeri, e il computer - richiesto di accedere a www.microsoft.com - va sempre a cercare la sequenza 207.46.138.20. Ma questo avviene senza che l’utente se ne renda conto, e per l’utente è certamente più facile ricordare “www.microsoft.com” che non “207.46.138.20”
Il prefisso www (di cui certi sistemi di navigazione oggi fanno a meno) indica il World Wide Web (la “rete”, che è solo una delle componenti di Internet, anche se è l’unica con cui la maggior parte degli utenti non specializzati hanno a che fare). Il suffisso finale (.com, nel caso di microsoft.com) è il cosiddetto “top level domain” (dominio di primo livello), mentre il marchio o nome del titolare (microsoft, nel caso di microsoft.com) è il cosiddetto “second level domain” (dominio di secondo livello). L’insieme (microsoft.com) costituisce il domain name (nome a dominio).
Se esistesse un solo “dominio di primo livello” il numero di nomi a dominio disponibili sarebbe piuttosto limitato. Se esistesse solo il dominio di primo livello .com, per tutti i nomi a dominio sull’intera rete, potrebbe anche esistere un solo nome a dominio dove il dominio di secondo livello sia “microsoft”. Forse questo farebbe piacere alla Microsoft, ma limiterebbe molto la capacità di espansione di Internet. Così, già il sistema in vigore nei primi anni dei nomi a dominio, comprendeva tre domini di primo livello disponibili per chiunque: .com, .org e .net (insieme ad altri riservati a particolari utenti, come .edu per le università o .gov per gli enti governativi americani). In teoria, .com doveva indicare le aziende commerciali, .net gli specialisti di Internet e .org le organizzazioni senza fini di lucro. Ma, non esistendo controlli, i tre domini di primo livello si sono confusi e oggi si trovano moltissime aziende commerciali che usano .net e anche .org.
Espandendosi Internet, è cresciuta la domanda perché l’ente nel frattempo deputato alla gestione dell’immane traffico di nomi a dominio sulla rete, ora l’ICANN (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), aggiungesse altri domini di primo livello. Per uso generale sono stati aggiunti .info e .biz (oltre a .name per le persone fisiche che portano un certo nome, e ad altri riservati a utenti particolar, come .museum per i musei). .com, .org, .net, .info e .biz (quest’ultimo abbreviazione di “business” nella pronuncia americana) sono i principali domini di primo livello internazionali. Con il tempo, si sono aggiunti oltre 240 domini di primo livello nazionali, come .us per gli Stati Uniti, .it per l’Italia e così via, così che oggi un dominio di secondo livello può essere teoricamente registrato in combinazione con circa 250 domini di secondo livello, costituendo 250 diversi nomi a dominio (non solo microsoft.com, ma microsoft.net, microsoft.org, microsoft.info, microsoft.biz, e anche microsoft.us, microsoft.it e così via).
Ci sono due principali differenze, Anzitutto, il marchio si registra per determinati prodotti o servizi, il domain name senza limitazioni di prodotto. Del resto, questo non sarebbe possibile. Nel mondo dei marchi possono coesistere un marchio FERRARI per automobili e un marchio FERRARI per spumanti. Nel mondo della rete, è possibile registrare un solo nome a dominio ferrari.com - o un solo nome a dominio ferrari.it - e non due.
In secondo luogo, i marchi sono retti dal principio di territorialità. Se registro il marchio FERRARI nell’isola di Tuvalu prima della Ferrari, il danno per la casa automobilistica italiana è limitato: posso usare il marchio solo a Tuvalu, se provo ad esportare nel paese di esportazione sono solo un comune contraffattore. Se invece registro ferrari.tv (.tv è il dominio di primo livello di Tuvalu), non sono solo gli utenti di Internet dell’isola di Tuvalu a potere accedere al mio sito: basta digitare ferrari.tv sul browser di un computer a Milano, New York, Buenos Aires o Singapore e si sarà connessi al sito di chi ha registrato quel nome a dominio, anche se l’utente non sa neppure dove sia Tuvalu.
Dipende. DN come amazon.com o ebay.com sono valutati decine di milioni di dollari. Come i marchi famosi, hanno raggiunto questi valori con l’avviamento e la pubblicità. Una differenza rispetto ai marchi è che, mentre i marchi che corrispondono a espressioni generiche non valgono nulla, i DN “generici” valgono moltissimo. Un marchio SEX per pubblicazioni a sfondo erotico sarebbe probabilmente nullo e varrebbe pochissimo. Il DN sex.com, costato trentacinque dollari, è stato valutato settantacinque milioni di dollari.
Ci sono, anche in Italia, benché esprimano una giurisprudenza che è sempre stata minoritaria e nel nostro paese è ora superata dalla legislazione. Dimostrano solo che ci sono giudici non al passo con i tempi della tecnologia e di Internet. Chi comprerebbe un “semplice indirizzo” per settantacinque milioni di dollari?
Non è forse più importante che un sito emerga ai primi posti nelle ricerche svolte tramite i motori di ricerca, qualunque sia il DN?
Emergere nelle ricerche è certamente molto importante. Tuttavia le statistiche dimostrano che un buon numero di utenti di Internet, quando cercano informazioni su un prodotto o società, prima di rivolgersi al motore di ricerca, provano a digitare direttamente <prodotto>.com o <società>.com. Inoltre oggi molti accedono a siti Internet non in seguito a ricerche ma a pubblicità seriale che arriva nelle loro caselle di posta elettronica e invita ad accedere a certi siti. Questa pubblicità seriale (detta spamming), rivolta a utenti che non l’hanno richiesta, è vietata in alcuni paesi ma continua imperterrita, e per pochi dollari lo spammer può acquistare milioni di indirizzi Internet che il venditore si è a sua volta procurato in modo più o meno lecito.
Questo vale per i .com. Non è forse vero che i vari .net, .biz, .info, e così via, per non parlare delle estensioni “nazionali” come .it e simili, valgono poco o niente?
No, non è vero. In alcune nazioni - in testa alla classifica ci sono fra le altre Germania, Gran Bretagna, Olanda e Italia - un numero di utenti quasi pari a quello di chi cerca per prima cosa <prodotto>.com prova a digitare anzitutto <prodotto>.estensione nazionale, per esempio <prodotto>.it, anche perché è convinto di trovare così informazioni nella sua lingua e riferite al suo paese. Le stesse statistiche dimostrano che milioni di utenti controllano anche (nell’ordine) i .net, .info, .biz e .org.
I DN .it, .de (Germania), .nl (Olanda) sono “utilizzati” da milioni di persone. Che dire delle altre centinaia di estensioni, che corrispondono magari a piccoli paesi come le Isole Cocos (.cc) o la Federazione della Micronesia (.fm). Si possono ignorare?
Dipende. Alcune estensioni come .cc, .ws (Western Samoa, ma anche “Web Site”), .tm (Turkmenistan, ma anche “trade mark”), grazie anche a un’abile propaganda, sono ampiamente consultate dagli utenti di Internet. Per esempio, ci sono più persone che cercando un prodotto o società provano con l’estensione .cc rispetto a quante provano con .us (Stati Uniti), e anche .ws è più diffuso di .us e di .co.jp (Giappone). Ci sono poi estensioni “specializzate” per la loro assonanza con altre sigle. Così nel mondo della televisione molti provano <prodotto>.tv, perché sanno che molte catene e programmi televisivi hanno adottato <nome del programma>.tv, anche se .tv originariamente è la sigla dell’isola oceanica di Tuvalu. Lo stesso vale per .fm (Federazione della Micronesia, certo, ma anche “modulazione di frequenza”) per le radio. Di recente, la società licenziataria dell’estensione .la (Laos) ha lanciato una grande campagna pubblicitaria per accreditare l’uso di .la con riferimento a Los Angeles. Quanto alle estensioni che non hanno la fortuna di essere “orecchiabili” o di richiamare nozioni come “televisione” o “modulazione di frequenza”, sono certamente meno utilizzate. Ma la pubblicità è l’anima del commercio, e anche un sito - per esempio - www.<prodotto>.na (Namibia) può trovare i suoi frequentatori se sostenuto da una buona campagna pubblicitaria.
E’ la registrazione di un DN che comprende un marchio famoso prima che a tale registrazione provveda il titolare del marchio. Per esempio, un cybersquatter potrebbe registrare cocacola.la (Laos, ma - come si è visto - pubblicizzato come “Los Angeles”) prima che alla registrazione provveda la Coca Cola.
Ma le autorità che presiedono alla registrazione dei domini - per esempio la Registration Authority italiana per il .it - non controllano se un nome a dominio di cui si chiede la registrazione non sia identico a un marchio famoso?
No: non c’è esame di novità nei nomi a dominio e per quasi tutte le estensioni le autorità, in base ai loro contratti con l’ICANN, non possono rifiutare la registrazione di un nome a dominio a meno che sia identico a un nome a dominio precedente.
Una cosa sola: rivendere il DN al titolare del marchio, realizzando un congruo profitto.
La storia del cybersquatting va distinta in due fasi. Fino al 2000 i profitti erano molto alti, perché non esistevano procedure di arbitrato obbligatorio (MAP, “mandatory arbitration proceedings”) che consentissero ai titolari dei marchi di recuperare i DN in tempi brevi e a costi relativamente contenuti. Per recuperare un .com (e molti altri DN) occorreva avviare una causa. Se la causa era negli Stati Uniti (paese dove si trovavano la maggior parte degli enti autorizzati a registrare DN, e anche la maggioranza dei cybersquatter) occorreva preventivare spese legali per decine se non centinaia di migliaia di dollari, a fronte delle quali molti preferivano pagare cifre ragguardevoli ai cybersquatter. Nel 2000 è stata avviata la procedura ICANN per i .com e le altre estensioni “internazionali”, che ha durata variabile (da uno a due mesi) ma breve, e costi variabili (a seconda della scelta di un collegio da uno a tre arbitri, e naturalmente del tipo di legali cui ci si affida) ma ragionevoli. Secondo uno studio del National Arbitration Forum americano una procedura ICANN per un .com costa in media al titolare del marchio intorno agli ottomila dollari (ma in Europa costa un po’ meno). Anche per non incoraggiare la pirateria, è quindi difficile che in condizioni normali qualcuno paghi a un cybersquatter più di qualche migliaio di dollari, e molte società non pagano i cybersquatter per principio quando una soluzione arbitrale è possibile.
In modo molto semplice. Il titolare deve provare di essere titolare di un marchio (registrato o di fatto) o di altri diritti di proprietà intellettuale violati dallo squatter; che lo squatter non ha diritti e interessi legittimi sul marchio; e che l’uso avviene in malafede. La giurisprudenza che emerge dai lodi arbitrali ICANN (ormai ne sono stati resi oltre 5.000) considera anche la “detenzione passiva” (cioè il tenere registrato a proprio nome un DN senza utilizzarlo) come “uso in malafede”. La difesa più pericolosa è quella dell’interesse legittimo. Se il titolare del DN può dimostrare di avere un’attività genuina e intrapresa in buona fede collegata al nome o marchio che costituisce il dominio di secondo livello, riuscirà a difendersi dall’arbitrato. In realtà la procedura ICANN è nata per difendersi dal cybersquatting, non per risolvere questioni di conflitto fra marchi. Se per esempio io ho il marchio ROSSI per liquori e un signor Mario Rossi registra ROSSI per un sito sulla sua famiglia, può darsi che le modalità di uso del sito configurino una violazione dei miei diritti di marchio, ma questa è materia per i tribunali e non per gli arbitrati ICANN.
Una volta depositato il ricorso, controparte replica (o è dichiarata contumace); segue la decisione, senza ulteriori repliche né udienze, né possibilità di appello agli arbitri, salvo il diritto della parte soccombente di rivolgersi ai tribunali ordinari.
Chi vince una procedura arbitrale ICANN può recuperare dalla controparte i danni e le spese?
No. La procedura ICANN è veloce e relativamente poco costosa perché è sommaria, e non comporta accertamenti - né, quindi, risarcimenti - relativi a danni e spese.
No. Alla procedura ICANN detta UDRP (Uniform Dispute Resolution Proceedings) hanno aderito numerosi gestori di estensioni nazionali, fra cui .cc, .ws e .tv che sono piuttosto importanti (e inoltre .ro per Romania, .au per Australia, .mx per Messico e molti altri, talora con regolamenti diversi - è il caso di .nl per l’Olanda - che implicano costi leggermente superiori). Altri paesi come l’Italia (.it), l’Unione Europea (.eu), gli Stati Uniti (.us), la Cina (.cn),e molti altri hanno delle procedure nazionali che assomigliano o alla procedura UDRP ovvero agli arbitrati tradizionali (con costi per gli arbitri superiori ai costi ICANN ma in genere non irragionevoli); altri ancora stanno introducendo procedure di questo tipo. Gli studi legali specializzati hanno di solito esperienza di queste diverse procedure, e sono in grado di gestirle senza l’ausilio di corrispondenti locali, anche se in alcuni paesi (per esempio in Cina) è necessario tradurre tutti gli atti nella lingua locale, il che aumenta i costi.
C’è, e soprattutto in Gran Bretagna (.co.uk e simili) e per l’Unione Europea (.eu), che ha affidato gli arbitrati in esclusiva a un ente della Repubblica Ceca, ci sono state decisioni piuttosto bizzarre. Ma quasi ovunque la situazione va migliorando.
Oggi sì. Inizialmente c’è stata una fase di assestamento, con decisioni controverse. Oggi, se ci si affida a legali competenti, la procedura per il .it ha le stesse possibilità di successo di una procedura ICANN per il .com
Dipende dai singoli casi. Bisogna ricordare che gli arbitrati sono stati pensati per il fenomeno del cybersquatting. Per vincerli occorre provare sia che il titolare del nome a dominio lo ha depositato e lo usa in malafede, sia che non ha un interesse legittimo a utilizzarlo. Ne abbiamo già accennato, ma torniamo qui sul punto perché ha grande importanza pratica. Per esempio se lo stesso marchio è utilizzato da A per abbigliamento e da B per acqua minerale, e B lo ha incorporato nel suo domain name, A non ha nessuna possibilità di successo in un arbitrato contro B, che ha un “interesse legittimo”. Se A ha un marchio famoso, in ipotesi, “Mario Rossi” e B che ha registrato mariorossi.it si chiama Mario Rossi, A non avrà successo nell’arbitrato. Tuttavia in questi casi se il marchio di A gode di rinomanza non è impossibile che A abbia successo in una causa in Tribunale: dovrà, appunto, rivolgersi al giudice ordinario e non tentare l’arbitrato. Nei casi invece di chiaro cybersquatting (o pornosquatting, di cui parliamo più oltre) l’arbitrato è più rapido ed economico, ed è quindi preferibile alla causa. Inoltre nei casi dei cybersquatter “professionisti” la causa incontra spesso problemi di notifica dal momento che è quasi la norma per questi soggetti fornire indirizzi falsi (la Registration Authority italiana controlla solo il codice fiscale, fuori dell’Italia in genere non ci sono controlli di nessun genere e chi registra un nome a dominio .com riesce facilmente a farlo sotto pseudonimo).
Un tempo i provider, per non avere grane, quasi sempre provvedevano a togliere lo spazio Web “offensivo” a chi violava i diritti di marchio altrui. Ma i provider hanno una posizione “politica” molto forte, e oggi in numerosi paesi (tra cui quelli dell’Unione Europea) le leggi tendono a proteggerli escludendo o limitando la loro responsabilità (non senza qualche ragione, perché lo squatter riesce spesso a operare con mezzi tecnologici che impediscono al provider di sapere che cosa sta facendo). In Italia il Decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, in attuazione della direttiva 2000/31/CE, esclude la responsabilità del provider e all’art. 16 precisa che il provider è tenuto a rimuovere i contenuti di un sito solo su richiesta delle “autorità competenti”. Per finire, anche in passato quando il provider rimuoveva i contenuti di un dato sito non rimuoveva il nome a dominio, di cui il provider non può disporre. Il nome a dominio continuava a essere controllato dal titolare, che poteva semplicemente rivolgersi a un altro provider.
Tranne casi rarissimi, questi enti non intervengono, non essendo per definizione competenti a regolare i conflitti fra nomi a dominio e diritti di proprietà intellettuale.
In una percentuale molto modesta di casi risolve la questione. In altri casi è utile perché il cybersquatter in risposta alla diffida offre di vendere il nome a dominio per una somma più o meno rilevante, offrendo così una prova della sua malafede assai utile nel successivo arbitrato. In sintesi: è raro che la diffida risolva il problema, ma tentar non nuoce e si possono spesso almeno ottenere elementi che si riveleranno utili nel prosieguo dell’azione. In ogni caso la diffida va sempre mandata per E-mail, o anche per E-mail, perché - come accennato - uno squatter esperto si premurerà di indicare all’atto della registrazione del nome a dominio un indirizzo falso.
Possono certamente, ma in genere perdono. Dopo il 2000 un cybersquatter avveduto contiene le sue pretese, e cerca di vendere il DN a un costo almeno leggermente inferiore a quello dell’arbitrato. Oppure deposita DN con estensioni dove non esiste (ancora) l’arbitrato obbligatorio (una delle più appetite era .ch per la Svizzera, fino a quando nel 2004 la Confederazione Elvetica si è decisa a introdurre un sistema di conciliazione e arbitrato)
. Alcuni cybersquatter agguerriti, bene organizzati e che operano d’intesa con studi legali specializzati in queste pratiche ricorrono contro l’esito dell’arbitrato ai tribunali (in Italia, possono anche interrompere l’arbitrato facendo causa a chi lo ha promosso prima della decisione), quindi propongono una transazione per un costo inferiore al costo prevedibile della causa.
Una serie di ordinanze e sentenze di tribunali toscani hanno ritenuto che i DN siano semplici indirizzi e che i titolari di marchi non possano opporsi all’inclusione dei loro marchi in DN .it. Per questa ragione alcuni cybersquatter professionisti si sono organizzati in forma societaria e hanno posto la sede legale delle loro società in Toscana, confidando nella “giurisprudenza toscana”. Dal 1° luglio 2003 le controversie in materia di marchi si concentrano nei “grandi” tribunali, e quindi non è più possibile per i cybersquatter portare le loro cause, per esempio, a Pescia o a Pistoia. Rimane il tribunale di Firenze, che in origine aveva applicato la “giurisprudenza toscana” ma in seguito si è invece allineato alla giurisprudenza nazionale, che considera il DN un segno distintivo.
Nella maggior parte dei casi, perché non sono in realtà cybersquatter “tradizionali” ma pornosquatter e figure simili. Confondere il tradizionale cybersquatter con il pornosquatter è frequente ma sbagliato, e può portare il titolare del marchio e chi lo difende a commettere gravi errori di strategia.
E’ la registrazione di un DN che comprende un marchio famoso allo scopo di usare il DN per attirare gli utenti di Internet verso un sito pornografico. Ci sono varianti del pornosquatting in cui si usa il DN per dirottare utenti verso casinò on line o siti che vendono (talora in forma illegale) Viagra® e altri prodotti farmaceutici in genere connessi alla sfera della sessualità. In genere, quanto diremo in questa FAQ per il pornosquatting vale anche per queste ipotesi parallele.
Sì. L’unico scopo del cybersquatter tradizionale è vendere il DN al titolare del marchio. Il pornosquatter invece gioca su due tavoli e può scegliere fra due clienti cui vendere o “affittare” il DN: i pornografi e il titolare del marchio.
Per rispondere, è necessario anzitutto ricordare che più di metà dell’E-commerce mondiale riguarda la pornografia, e che ci sono decine di migliaia di siti pornografici in feroce concorrenza fra loro. Per emergere, hanno a disposizione tre principali strategie: primo, acquistare blocchi di indirizzi E-mail, o enormi (se ne vendono di milioni di indirizzi) ovvero specializzati (indirizzi di chi ha già acquistato servizi pornografici) e procedere a operazioni di spamming; secondo, pagare i motori di ricerca per figurare nelle prime posizioni (quasi tutti vendono posizioni “sponsorizzate”, ma per voci di ricerca di tipo sessuale i costi sono elevati: da venti a cinquanta centesimi di dollaro al click se si vuole andare davvero nelle posizioni di testa); terzo, adottare un buon DN, o adeguatamente “generico” (dal celebre sex.com in giù) ovvero che richiami un marchio famoso in settori diversi dalla pornografia. In quest’ultimo caso il pornografo si rivolge al pornosquatter, il quale gli affitta a un tanto al click un DN che comprende un marchio celebre.
Perché un DN che include un marchio noto nel settore, per esempio, della moda o delle automobili interessa a chi gestisce siti pornografici?
Perché sarà digitato dall’utente che cerca quel prodotto di moda o quell’automobile, un utente magari irraggiungibile con altri mezzi e che invece finirà sul sito pornografico senza volerlo. E anche se l’utente non digita <prodotto>.<estensione> spontaneamente (magari perché l’estensione è meno comune del .com o dell’.it) ricorderà più facilmente, una volta raggiunto dallo spamming, <marchio famoso>.<estensione> che non <nome sconosciuto del fornitore di servizi pornografici>.<estensione>. Per chi poi vende prodotti medici senza ricetta o di dubbio valore usare un DN che richiama il nome di una “vera” casa farmaceutica è certamente utilissimo.
Di solito il pornografo sa fare i suoi affari piuttosto bene, e del resto anche i motori di ricerca “sponsorizzati” si fanno pagare al click, senza dare garanzie sul fatto che chi arriva su un certo sito compri davvero qualcosa. Per capire meglio, proviamo a fare i conti in tasca al pornografo. In casi eccezionali (quando il pornosquatter è così fortunato da riuscire a impadronirsi di <marchio famoso>.com) il pornografo paga il pornosquatter anche cinquanta centesimi al click, ma la tariffa corrente oggi è intorno ai venti centesimi. Studiosi della pornografia via Internet hanno concluso che il medio cliente che si induce a comprare servizi pornografici tornerà sul sito più volte, e spenderà in media cinquanta dollari in prodotti e servizi vari. A venti centesimi al click pagati al pornosquatter, con cinquanta dollari si attirano sul sito pornografico duecentocinquanta utenti di Internet. Se almeno uno diventa cliente, il pornografo va in pari, da due in su ci guadagna.
Risparmierebbe certamente, ma si assumerebbe anche i relativi rischi. Le società che gestiscono i siti pornografici sono società con nome, cognome e indirizzo che devono farsi pagare dai clienti tramite carta di credito e di cui dunque è facilmente accertabile anche il conto in banca. I titolari dei diritti di marchio violati dal pornosquatting potrebbero aggredire direttamente le società che si occupano della pornografia, e chiedere i danni, fidando nel fatto che i portafogli di queste società sono piuttosto capienti. Il pornosquatter di solito all’atto della registrazione dà un indirizzo e spesso anche un nome falso ed è difficilmente attaccabile per danni. Se il titolare del marchio identifica la società che gestisce il sito pornografico e la attacca direttamente, questa risponde che non conosce affatto il pornosquatter. Trovare le prove del legame è spesso impossibile.
Le indagini federali americane sul vero inventore del pornosquatting, John Zuccarini (cui alla fine si è riusciti a imputare vari reati che lo hanno condotto in carcere, senza che alla sua vicenda giudiziaria sia peraltro ancora stata posta la parola fine), hanno dimostrato che Zuccarini aveva accumulato crediti così importanti nei confronti dei gestori di grandi siti pornografici da costringerli a vendere allo stesso Zuccarini i siti per evitare il fallimento. Il caso Zuccarini è unico, ma un buon pornosquatter, usando lo spamming specializzato e non quello generico (cioè mandando E-mail in massa solo a chi ha già comprato servizi pornografici on line), da un DN che corrisponde a un marchio famoso ricava da cinquecento a mille contatti al giorno, che gli fruttano alle tariffe correnti da cento a duecento dollari quotidiani. Crescendo il numero di pornosquatter, i profitti fatalmente diminuiranno, ma intanto un pornosquatter che conosca il suo mestiere può tranquillamente ricavare decine di migliaia di dollari all’anno da un “buon” DN, il che spiega perché non gli interessa venderlo per duemila o cinquemila dollari.
Sì. In genere quando parte l’arbitrato il pornosquatter si impegna a fondo nello spamming per “spremere” dal DN tutto quello che può prima di perderlo (nel mese o due che l’arbitrato richiede per andare a decisione, si può trattare comunque di migliaia di dollari). Inoltre, i contratti scritti stipulati fra il pornosquatter e il titolare del sito pornografico (contratti perfettamente validi: la pornografia di per sé non è illegale) impediscono al pornosquatter di cedere il DN a terzi, o subordinano la cessione al pagamento di una penale piuttosto forte. Beninteso, tutto ha un prezzo e il titolare del marchio può sempre ricomprarsi il DN pagando una cifra più alta della penale che il pornosquatter dovrà versare al pornografo sommata a quanto il pornosquatter ricaverebbe dal DN durante il periodo dell’arbitrato. Ma la logica è completamente diversa dal vecchio cybersquatting. Il cybersquatter non sa che farsene del DN se non lo vende al titolare; avendolo pagato poche decine di dollari, se lo vende per qualche centinaia è già contento, e se è furbo lo venderà per un prezzo di poco inferiore al costo dell’arbitrato. Il pornosquatter si aspetta di guadagnare con l’uso pornografico del suo DN decine di migliaia di dollari, e anche in caso di arbitrato spera comunque che una campagna di sfruttamento intensivo del DN porti nelle sue casse diverse migliaia di dollari prima che l’arbitrato faccia il suo corso. Infine, i pornografi preferiscono trattare con pornosquatter “leali” che non cedono alle minacce di arbitrato, tengono duro e continuano a “lavorare” con il pornografo fino all’ultimo giorno utile. Naturalmente, questo non esclude che il pornosquatter sia disponibile a vendere il DN: ma in genere per una cifra dai diecimila dollari in su (talora molto in su), mentre il vecchio cybersquatter “tradizionale” si accontentava di molto meno.
Sbagliato. La “caduta” di John Zuccarini è stata determinata proprio dal fatto che utilizzava per il pornosquatting DN che comprendevano il nome di personaggi dei cartoni animati, così che lo si è potuto accusare di corrompere i minorenni. Zuccarini si è difeso sostenendo che è statisticamente provato che i siti dei cartoni animati sono visitati da molti collezionisti e appassionati adulti. Che questo sia vero o no, è un fatto che marchi “per bambini” sono stati spesso oggetto di pornosquatting.
Di una geniale variante del pornosquatting. Attraverso un robot, il pornosquatter sorveglia un certo numero di DN che corrispondono a marchi famosi e che sono usati per siti che presumibilmente hanno un buon avviamento e utenti affezionati. Un numero molto più alto di quanto non si creda di titolari di DN si dimentica di rinnovare i DN per semplice incuria. Il robot del pornosquatter punisce questa incuria immediatamente: pochi secondi dopo la scadenza, rideposita il DN a nome del pornosquatter e lo punta verso il sito pornografico di un cliente del pornosquatter medesimo. Secondo uno studio americano, quarantamila DN all’anno sono vittima del porn-napping (anche se talora i pornosquatter esagerano e rinnovano DN lasciati scadere semplicemente perché poco frequentati: ma i pornosquatter spesso usano fornitori di DN che hanno la clausola “soddisfatti o rimborsati”, e se nei termini di legge vedono che il sito non è attraente restituiscono il DN al fornitore e si fanno rimborsare).
Il typosquatting è un’altra invenzione di John Zuccarini, il re dei pornosquatter, e ha contribuito in modo decisivo alle sue fortune. Zuccarini è partito dalla semplicissima constatazione secondo cui moltissimi utenti di Internet - come qualunque dattilografo dilettante - commettono errori di battitura quando digitano il nome di un sito nel loro browser. Per esempio cercando yahoo.com digiteranno yaho.com o yahooo.com. Normalmente dovrebbero ricevere un messaggio di errore, rendersi conto di avere sbagliato, e ri-digitare la versione corretta. Ma questo non avviene se nel frattempo è intervenuto Zuccarini (o uno dei suoi ormai innumerevoli “allievi”), che ha registrato la versione “sbagliata” e la ha puntata su un sito pornografico. Oggi le versioni “sbagliate” di yahoo.com sono state quasi tutte recuperate da Yahoo con procedure arbitrali. Ma altri siti sono ancora sotto attacco, e il typosquatting offre possibilità di varianti quasi infinite. E profitti da capogiro: Yahoo fa settanta milioni di contatti al giorno, e anche se solo un utente su diecimila sbaglia a digitare, il pornosquatter fa un rispettabile bottino di settemila click quotidiani.
Sta diventando una piaga. Nell’ultimo anno sia il New York Times sia USA Today, i due maggiori quotidiani americani, gli hanno dedicato articoli di prima pagina. L’Italia e i .it stanno a loro volta diventando importanti per i pornosquatter, anche perché l’Italia è un centro importante di produzione di pornografia.
Sì. Può trasformare il pornosquatting in un reato penale, con pene detentive reali. Se la legge penale funziona, questo è sicuramente un deterrente per i pornosquatter. Tuttavia, il problema di Internet è che si tratta di una rete globale. Se una legge anti-pornosquatting esiste negli Stati Uniti e non nelle Bahamas, a un Zuccarini (come di fatto è avvenuto, anche se poi è incautamente tornato negli USA) basta trasferirsi nelle Bahamas per continuare a operare. Inoltre, quando nasce una nuova estensione (come è avvenuto per .info e .biz, e per .eu) è utile che ci sia un sunrise period in cui solo i titolari di un marchio possano registrare il DN corrispondente. La fantasia del pornosquatter è ampia, e ci sono anche titolari di marchio che si “dimenticano” di approfittare del sunrise period, ma è certo che il sistema del sunrise period rende le cose più difficili per i pornosquatter.
Molte aziende lo sanno perché ricevono proteste di consumatori, o perché un loro dipendente riceve spamming che propaganda il sito incriminato. Ci sono anche molti servizi di sorveglianza per DN e per abusi del marchio via Internet. Nessuno riesce a catturare veramente i DN semplicemente simili, se non in minima parte, ma alcuni almeno scoprono i DN identici al marchio sorvegliato. I servizi delle società che si occupano di registrare DN scoprono una buona parte di questi episodi. Personalmente, preferiamo servizi affidati più alla verifica umana e meno ai robot e ai computer; le persone umane spesso trovano casi che sfuggono alle sorveglianze automatizzate. Ce ne sono di diversi tipi e costi, ma un semplice servizio di sorveglianza (non automatizzata) per DN identici non ha un costo superiore a cinquecento euro all’anno per marchio (ricordando che sul Web variazioni anche minime del marchio costituiscono marchi diversi: così, per esempio, “cocacola” senza trattino e “coca-cola” con il trattino). La sorveglianza del Web alla ricerca di violazioni (che cerca anche usi impropri di metatag, vendita di prodotti contraffatti, svendite non autorizzate e simili) ha costi più elevati, da calibrare su ciascun marchio, e va scelta all’interno di strategie che non si occupano solo di DN.
In attesa di modifiche legislative internazionali, con gli arbitrati e, dove non ci sono gli arbitrati, con le cause. E’ vero che il pornosquatter guadagna qualcosa, come si è visto, anche se perde il DN a seguito di un arbitrato. Ma guadagna molto di più se il titolare del marchio famoso lo lascia fare. Vale per il pornosquatting l’“effetto porta corazzata” studiato dai criminologi (che vale anche per la contraffazione di marchio). Se uno scassinatore è abile, scardinerà anche una porta corazzata. Ma siccome lo scassinatore opera con una certa razionalità, se in un condominio cinque porte sono corazzate e cinque non lo sono, si concentrerà sulle porte non corazzate ottenendo gli stessi risultati con minor tempo e fatica. Se un pornosquatter è determinato, si difenderà anche dalle società che lo perseguono regolarmente con gli arbitrati e le cause. Ma siccome anche il pornosquatter opera secondo i principi della scelta razionale, dovendo scegliere tra usurpare i marchi di chi abitualmente non si difende e quelli di chi si difende, posto che i marchi più o meno famosi sono molti, sceglierà quelli dei titolari più “lassisti”. Peraltro, è importante rendersi conto del fatto che il successo nelle procedure arbitrali non è automatico. Alcune procedure arbitrali per estensioni nazionali hanno regolamenti piuttosto originali, che vanno studiati con attenzione. Anche per la procedura ICANN relativa ai .com, che molti pensano di conoscere, sono frequenti i casi di arbitrati persi per errori procedurali, e anche in casi di resistente contumace gli arbitri danno sistematicamente torto al ricorrente se l’argomentazione non è sufficientemente sviluppata. La giurisprudenza che emerge dai lodi arbitrali cambia quotidianamente (i lodi per i .com e affini pubblicati sono ormai più di cinquemila), e la mancanza di aggiornamento è fatale. Casi che sembrano simili lo sono solo apparentemente. Come sempre, non ci sono “scorciatoie” né sostituti per l’esperienza, la competenza e la specializzazione.
Il rischio è lo stesso rispetto alla contraffazione di marchio. Se la tollero, il marchio perde credibilità e prestigio, vanificando gli investimenti che ho fatto per promuoverlo come marchio prestigioso. Lo squatting è oggi quello che la contraffazione in Estremo Oriente era vent’anni fa, e solo in parte è ancora. Nessuno pensa che il prodotto venduto dal contraffattore tailandese sia “genuino” o provenga davvero dall’azienda titolare del marchio. Ma questo non impedisce all’abbondanza di contraffazioni di svilire e svalutare il marchio. Parallelamente, se tollero che su Internet il mio marchio sia usato per fare letteralmente di tutto - pornografia compresa -, dal momento che Internet è oggi il più grande mercato del mondo, lascio che il mio marchio si squalifichi sul Web e forse anche altrove. Ci sono già storie tristi di società boicottate sul Web (e fuori del Web) da associazioni di consumatori, religiose, o di difesa dei valori familiari perché i DN dei loro siti sono troppo simili ai DN dei pornosquatter che usano il loro marchio e contro cui non hanno reagito, e il rischio per il consumatore (tanto più se minorenne) di finire su un sito pornografico è troppo forte.
Vi sono anche rischi più tecnici; in particolare:
a) la giurisprudenza che emerge dagli arbitrati ICANN a partire dal caso del DN krugerrand.com (Rand Refinery Ltd. v. Patrick Reinhardt, D2001-0233) ammette la difesa dell’inazione: secondo la decisione krugerrand.com “anche se il ricorrente ha diritti sul marchio KRUGERRAND … il resistente può difendersi contando sul fatto che egli ha mantenuto indisturbato la sua registrazione per diversi anni, mentre il titolare del marchio è rimasto in una situazione di prolungata inazione”; particolarmente negli Stati Uniti, dove la dottrina dell’inazione è più rigorosa, arbitri e anche tribunali hanno stabilito che se il titolare di un marchio tollera una pluralità di DN uguali o simili al suo marchio, la sua inazione gli impedisce di perseguire con successo e tardivamente ulteriori violazioni (cfr. Bank United Corp. and Bank United v. BuildPro Communications, caso NAF no. 95158; Chum Ltd. V. Kashchum Café and Much eRendezvous / Kasra Meshkin, caso e-Resolution AF0984);
b) sempre negli Stati Uniti (ma in tema di Internet le decisioni americane sono spesso citate in altri paesi) vi sono sentenze secondo le quali tollerare senza agire una pluralità di DN uguali o simili al proprio marchio “diluisce” il valore del marchio che diventa alla lunga indifendibile o almeno difficile da difendere contro imitazioni non identiche: una delle sentenze più spesso citate è Avery Dennison Corp. v. Sumpton, 189 F.3d 868, 51 USPQ2d 1801 (9th Cir. 1999) secondo la quale l’effetto di dilution si verifica “anche se il domain name è usato per prodotti o servizi che non sono in concorrenza con quelli per cui è registrato o usato il marchio”. In effetti, queste decisioni sono così numerose che i lavori preparatori della legge denominata ACPA (Anticybersquatting Consumer Protection Act, del 1999) citano esplicitamente il rischio di “erosione della capacità distintiva del marchio” per introdurre misure contro il cybersquatting, e l’articolo 43 (d) introdotto nella legge marchi americana dall’ACPA fa seguito e integra il 43 (c) che è l’articolo relativo al rischio di dilution del marchio.
Beninteso, anche se i rischi che una pluralità di DN identici o simili fanno correre al marchio sono del tutto reali, la difesa non può neppure essere scriteriata e sparare nel mucchio colpendo tutto quanto assomiglia anche solo vagamente a un marchio che si vuole difendere. Un legale esperto sarà normalmente in grado di calibrare una strategia di difesa rispetto alle esigenze reali del marchio, nei limiti di un budget ragionevole, tenendo conto però che non è ragionevole nella difesa della proprietà intellettuale attribuire a Internet un budget minore rispetto, per esempio, a mercati nazionali offline dove il numero di consumatori è molto minore.